Che Antonio Ligabue “volesse nascondersi”, Giorgio Diritti ce lo fa capire già con la prima inquadratura: il pittore, durante uno dei numerosi passaggi nell’ospedale psichiatrico di Gualtieri, al cospetto del dottore che lo interroga e lo scruta, si rifugia completamente sotto un panno, da cui rimane scoperto soltanto un occhio con cui ricambia lo sguardo dello psichiatra. Questa situazione ricorre spesso, soprattutto nella prima parte del film, sottolineando come il pittore emiliano fosse fuori sintonia – «fuori squadro», come dice uno dei personaggi del film commentando i suoi quadri – con il mondo degli uomini, dal quale era impaurito e dal quale cercava costantemente rifugio e riparo. Nella prima parte del film Diritti riesce a raccontare la sofferenza e l’alienazione del pittore con una serie di opzioni perfettamente coerenti, scegliendo di muoversi liberamente tra assi temporali diversi, ricorrendo a una narrazione ellittica molto sciolta e spesso rompendo i nessi di causa ed effetto che legano le diverse situazioni. Per tutta la prima ora, Volevo nascondermi ci restituisce la personalità di Antonio Ligabue come un enigma, come un puzzle da ricomporre, un mistero da risolvere. Le sue opere, i suoi quadri e le sue sculture, quando si affacciano in questo contesto, appaiono come strumenti di sopravvivenza indispensabili che consentono di al pittore di dare forma a un’altra realtà, per lui più tranquillizzante e comoda, segnata da quell’animalità che ne contraddistingue l’animo inquieto e che lo rende così attratto dalle bestie che spesso ritrae. Diritti è perfetto qui a scontornare la dimensione rurale in cui si muove la vicenda, a gestire dialetti e paesaggi, a suggerire le minacce della storia – il podestà che ne chiede l’arresto perché «non contribuisce in alcun modo alla crescita dell’Italia fascista». Dove si inceppa Volevo nascondermi è nella seconda metà, quando Diritti si piega alla necessità di essere più compilativo, di dar conto con maggiore precisione di dati, date e fatti. Progressivamente sparisce la visceralità straniante della prima ora, che lascia allo scoperto un film indeciso e un po’ più didascalico, che ricorre a inserti onirici che è fin troppo semplice definire felliniani ma che sembrano davvero un po’ distanti dallo stile e dalla “mano” del regista di Il vento fa il suo giro. Anche la “gestione” di Elio Germano, la cui prova è complessivamente di livello altissimo, segue questo percorso: nella prima parte, che paradossalmente avrebbe potuto essere la più rischiosa, l’attore è invece perfettamente sorvegliato dallo sguardo di Diritti ed è fantastico nel restituire l’istintiva bestialità del futuro artista; quando, a suo modo, Ligabue trova posto nel tessuto sociale del contesto rurale in cui vive e opera, la sua recitazione, lasciata a briglia sciolta, finisce per andare un tantino sopra le righe. Rimane, quello di Diritti, un film importante, peccato per l’indecisione che lo attraversa. La bellezza della prima parte, in ogni caso, sembra confermare che è più che sensato indicare il regista bolognese come il più legittimo erede di Ermanno Olmi.
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