Il primo mondiale di cui ho memoria è Messico ‘86.

Avevo solo sette anni, ma ricordo tutto: le partite dell’Italia viste con i miei genitori e il nonno, Platini che ci manda a casa agli ottavi di finale, l’album di figurine Panini – con mio padre che mi porta a casa dei pacchetti ogni sera e me li nasconde sotto il piatto – il calendario delle partite in cartoncino rigido, omaggio della Gazzetta, su cui era un’impresa impossibile segnare i risultati.

Lo ricordo come un evento fantastico, ingigantito dal fascino eccitante della scoperta: il calcio ho iniziato ad amarlo lì, proprio quell’estate, proprio in quel momento. Ho iniziato ad amarlo soprattutto grazie a quel torello col baricentro basso che saltava gli inglesi come birilli, segnava di mano e vinceva le partite da solo.

Poi mi sono scoperto milanista e quel nome, Maradona, che ha in sé, nel suono, qualcosa di epico, mi ha accompagnato negli anni più belli, quelli del tifo bambino, totale e innocente, per il Milan olandese, di cui Diego era il grande rivale.

Mi ha fatto piangere a Italia ‘90, mi ha esaltato a USA ‘94, con quel gol pazzesco alla Nigeria e quell’esultanza memorabile, prima che la FIFA e Blatter lo eliminassero dal mondiale.

Non so neanche dire quante volte mi sono imbambolato, anche di recente, davanti a youtube, a riguardare i suoi goal, soprattutto una punizione contro la Juve che continua a sembrarmi fisicamente incomprensibile.

Sì, sono d’accordo con molti di voi che lo state scrivendo: è scomparso il più grande di tutti, un campione, un artista, un’icona pop la cui dimensione va ben oltre il calcio, di cui è stato il Re.

Mi intristisce, però, anche sentire che è scomparso, con Diego Armando Maradona, anche un pezzo dolce della mia infanzia.